Psicologia del gioco del calcio
Francesco Valente*
Sono eccessive le manifestazioni di cordoglio per la morte di Maradona?
Se Maradona fosse stato campione in uno sport diverso dal calcio, come ad esempio il tennis, la pallavolo o il basket, avrebbe avuto la stessa fama e lo stesso seguito? Senza nulla togliere all’affetto e al dolore che tutto il mondo ha dimostrato per lui, sinceramente direi di no. Ed allora, per poter capire il senso di tutto questo delirio collettivo, occorre spostare l’attenzione sul gioco del calcio.
Perché 4 miliardi di persone hanno guardato la finale della coppa del mondo di calcio?
Iniziavo così un mio libro che avevo pomposamente intitolato “Psicologia del gioco del calcio” alcuni anni fa, quando spiegavo agli aspiranti allenatori un po’ di psicologia dell’età evolutiva e quali erano gli atteggiamenti di comunicazione migliore per uno sport che attrae tutto il mondo sportivo e anche quello che lo critica.
Secondo Desmond Morris che ha scritto un interessante testo intitolato “La tribù del calcio”, questo sport è “un’ossessione unica della sola specie umana e lo dimostra anche il fatto che, sulla nostra terra, non esiste città, di una certa importanza, che non abbia almeno uno stadio.
Se un’astronave aliena sorvolasse il mondo, gli extraterresti noterebbero questa costante: il campo di calcio circondato da gradinate e, magari, gli attribuirebbero una funzione di luogo sacro, dedicato a cerimonie religiose legate ad una fede mondiale. E non avrebbero tutti i torti, data l’attrazione mistica esercitata da questo sport che chiamare “gioco” è decisamente riduttivo.
L’erba del campo di calcio è stata definita “sacra zolla” e a Coverciano ne sono stati sottratti innumerevoli ciuffi da conservare come reliquie. Un giocatore come Maradona è venerato come un dio, o meglio come un idolo a cui nessuno chiede di essere anche un modello di vita.
E ancora: certi cori da stadio sono presi a prestito da cori di chiesa, anche se le parole, a volte, sono oscene. Infine: il rito della partita offre al tifoso la sensazione di appartenere ad una comunità e quindi, cerimonie religiose e partite di calcio sono occasioni di identità sociale.
Se poi scendiamo a livello amatoriale, il calcio offre occasioni di divertimento con mezzi accessibili a tutti.
Per giocare a calcio è sufficiente avere uno spazio qualunque, erba, cemento, sabbia, … e di differenti dimensioni. Si può essere in pochi o in tanti: negli oratori man mano che arrivano ragazzi il numero di giocatori aumenta; se va via qualcuno si gioca lo stesso. Giocano i magri, i grassi, i piccoli e i grandi di ogni età. Maradona non aveva un fisico esteticamente atletico e forse le sue imperfezioni lo hanno addirittura favorito.
In altri sport tale elasticità è rara: immaginate una pallavolo senza rete o il basket senza canestro.
Il calcio consente quello che altri giochi non permettono: basta un terreno più o meno liscio, quattro persone, due pezzi di legno come porta e una palla fatta anche con stracci, … e si gioca.
Quindi le manifestazioni di questi giorni hanno celebrato un campione indiscusso, ma soprattutto hanno dimostrato che il gioco del calcio è un valido strumento educativo da usare in modo appropriato nella formazione dei ragazzi.
Peccato che il gioco vero e proprio sia ormai secondario allo spettacolo e all’industria del pallone che, in Italia, rappresenta la terza risorsa economica del Paese.
E i tifosi? Quando mi chiedono come definire il tifo rispondo che è sufficiente consultare un vocabolario: “tifo”, malattia contagiosa da cui si può quasi sempre guarire, secondo la medicina.
Il mondo del calcio ha contratto questa malattia, da cui, però, la guarigione non è contemplata.
*Psicologo dello sport, già docente di psicopedagogia ai corsi allenatori FIGC