Diario di un viaggio nella memoria
di Michele Mellace
20 gennaio 2009 Torino Porta Nuova ore 14.700 persone salgono sulle dieci carrozze del Treno della Memoria organizzato da Terra del Fuoco. Nessuna bandiera, nessuno striscione, un’atmosfera senza emozioni apparenti, ognuno di noi ha la mente rivolta alla destinazione: la Polonia, Cracovia, Auschwitz, Birkenau. Alla partenza il treno è silenzioso, dopo un po’ dai finestrini cominciano a vedersi pianure innevate sotto un cielo grigio. Ogni tanto arrivano dai corridoi voci spensierate di ragazzi. Nello scompartimento siamo in sei, si comincia a parlare del più e del meno. Alla stazione di Rho il treno non viene annunciato, rallenta e poi riprende la sua corsa anonima: noi sopra sappiamo dove stiamo andando, chi è a terra ignora la nostra destinazione, i campi di concentramento. Il treno è caldo, pieno di valigie, siamo ben vestiti, c’è tanto da mangiare, caramelle, giornali. Si parla di siti internet. Loro di cosa parlavano? E cosa sentivano? Il rumore delle ruote del treno sui binari, il dondolio delle carrozze… Noi però vediamo il paesaggio, loro non potevano. Tra Brescia e Bergamo l’altoparlante annuncia “treno straordinario fermo al primo binario, non effettua servizio passeggeri”. È quasi buio; si vedono le prime luci delle città e tanti capannoni grigi e tristi. Quasi alle 9 ci fermiamo a una stazione, una voce femminile ci dice che siamo in terra straniera: Austria. Dubbi, paure, ansie: “dove ci portano? perché?” Noi sappiamo dove li hanno portati e purtroppo anche il perché. Disegni e azioni perverse che solo l’uomo può aver compiuto e che ancora non smette di compiere.
21 gennaio 2009. La mattina presto un sms di benvenuto sul cellulare ci dice che siamo nella Repubblica Ceca: il paesaggio è pianeggiante, gli alberi sono coperti di vischio e sembrano alberi di Natale. Nei campi tanti animali: lepri, fagiani, caprioli. Tutto innevato e ghiacciato. Si parla un po’ di politica e poi si dorme. Alle 14 siamo finalmente a Cracovia. Tempo di sistemarsi in ostello e si visita la città, tutto il tempo sotto la pioggia. Cracovia è stata preservata dai bombardamenti, è intatta. La piazza è imponente e piena di gente, le chiese in stile gotico sono maestose, omaggi di ricche persone. L’esaltazione del divino e della Casa di Dio è quasi eccessiva, non fa rimpiangere le chiese del resto del mondo. Come è stato possibile a pochi chilometri commettere quei massacri? Ha dell’incredibile. Dove erano le autorità civili e religiose? Nessuno vedeva, sentiva, protestava, condannava? E quale fu il prezzo pagato? Domani andrò lì… mi sembra di aspettare l’inizio di un film. Ho cenato con altre persone, ho assistito a uno spettacolo fatto dai ragazzi, Hansel e Gretel in chiave moderna. A volte penso che niente è cambiato e niente cambierà. Non si fa nulla di concreto contro i crimini odierni. Sono stanco ma non sfinito, in attesa di domani…
22 gennaio 2009. Verso i campi di Auschwitz e Birkenau. “Il lavoro rende liberi” in tedesco sul cancello d’entrata del campo di Auschwitz è il primo schiaffo agli internati, mentre la neve cadeva insieme alla cenere dei camini dei forni crematori. Reticolati con filo spinato doppio, triplo, fossati, fili elettrificati, torrette tutto intorno, mura di un castello… impossibile scappare. Stipati nelle palazzine, nei blocchi, come le sardine in scatola. Ogni blocco adibito a una esigenza: mangiare, dormire, morire. Prigioni per sperimentare il gas, per torturare, affamare, piegare ogni resistenza. Armadi di muratura con dentro stipati quattro detenuti: si entrava dal basso e si stava in piedi. Si usciva, quando si usciva, dopo due o tre giorni. Orrendo! Il muro per le fucilazioni, i pali per le punizioni mortali. Forche fisse e mobili, non si facevano mancare nulla. Forni, camere a gas. Entri per fare la doccia, muori e vai direttamente nel forno, diventi cenere ed esci dal camino, e quello che resta sparso in una fossa nel campo come fertilizzante: un ciclo perfetto. C’era anche la musica che accoglieva i lavoratori dal ritorno da una quasi intera giornata di lavoro. L’appello fermi nel piazzale, la conta che durava tante ore in piedi. Tutti dovevano rientrare, morti, feriti, agonizzanti. Tutti presenti. Si moriva aspettando l’appello o assistendo a una cerimonia d’impiccagione su sentenza di un giudice ufficiale. Il campo di lavoro era un luogo per morire sulla base della selezione naturale: i più forti fisicamente resistevano, donne, bambini e anziani erano invece destinati alla morte, di fame, di stenti, di punizioni. All’interno degli edifici tante testimonianze ammassate: foto, scarpe, occhiali, vestiti, spazzolini, creme, valigie, piatti, pentole. Ti spogliavano di tutto, ti sfruttavano al massimo e quando non rendevi non eri più degno di vivere. Inizia a nevicare, siamo equipaggiati con ombrelli, scarponi, giacconi, sciarpe, ma il freddo ci pervade, fuori e dentro. Siamo tutti esterrefatti, increduli di fronte all’organizzazione perfetta tedesca. Dobbiamo andare a Birkenau a pochi km di distanza. Attraversiamo un prato a perdita d’occhio, non seminato ma recintato. L’ingresso ha le torri di avvistamento e di controllo e ci sono altre torrette a distanza. Eccoli i binari che entrano nel campo, immagine vista molte volte nei film e nei documentari. Scendevi dai vagoni e venivi selezionato: maschio, femmina, ragazzo, giovane, vecchio, ammalato. Si cominciava dalla “sauna”, luogo di “sudore tonificante”. Spogliato di tutto, poi docce, cremazione, cenere nei fossi. Birkenau è grande decine di ettari, un immenso campo suddiviso in maschi e femmine. È disseminato di baracche di legno. Ogni baracca conteneva 400 persone. Dentro c’erano i letti a castello, 8-10 persone per letto. Il riscaldamento era quindi “naturale”. La latrina era un lungo muretto con circa 200 buchi uno affianco all’altro a destra e a sinistra: 200 posti per espellere in fretta tutti insieme contemporaneamente. La vita era come ad Auschwitz o peggio. Sfruttati, derisi, offesi. A Birkenau ci sono stati un milione e centomila morti. Una catena di morte perfetta per persone che non avevano più niente. Il tutto eseguito con un ordine totale che imponeva velocità, efficienza, risparmio. Nel gennaio del 1945, prima di scappare, i nazisti hanno provato a distruggere i campi e a non lasciare tracce. I crematori e i forni ad esempio sono stati quasi distrutti. Ma molto è rimasto per capire quello che è stato commesso: i testimoni, la struttura immensa, le baracche, gli oggetti. La sensazione che si prova dopo aver visto quell’orrore è quella di voler scappare, di andare via lontano. Tuttavia ho memorizzato tutto, le voci di dolore, la rassegnazione, le vane speranze. Al termine della visita ci rechiamo al piazzale del campo. Il monumento presente è stato realizzato grazie alla collaborazione di tanti Comuni d’Europa, e tra questi c’è anche Cotronei, un piccolo paese in Calabria nel quale sono nato. Ricordo le grandi proteste da parte dell’opposizione di destra all’adesione del Comune! Assistiamo alla commemorazione, vengono letti i nomi di alcuni “ospiti” del campo e alcune testimonianze. Io leggo “Neumann Otto”, facile da ricordare con Leumann e poi otto… Un commesso cremato 20 giorni dopo il suo arrivo. Neumann Otto non dimenticherò mai il tuo nome.
23 gennaio 2009 giorno libero. Nessuna voglia di uscire ad apprezzare le bellezze della città. Si va comunque al Museo di Cracovia per vedere “La dama con l’ermellino” di Leonardo. Bellissima, enigmatica. Ho apprezzato il museo ma senza sorriso, senza partecipazione emotiva. Andiamo poi al ghetto. La sinagoga, i palazzi, le chiese. Sono distratto, non mi va di fare il turista. Cerco di tirarmi su ma non ci riesco. Nella testa e negli occhi immagini e interrogativi: come hanno potuto? Perché? E io cosa avrei fatto? Avrei protestato? Avrei partecipato? La sera nel centro c’è tanta gente, nessuno ha voglia di andare a dormire. Neanche io, ma di ritorno in albergo, mi addormento come un sasso.
24 gennaio 2009. Si riprende il treno per il luogo viaggio di ritorno a casa. Voglio partire, andare via, togliere dalla testa quelle visioni. Mi sembra di scappare, e di uscire da un incubo. Nello scompartimento si apre la discussione su quello che si è visto, fino a quel momento nessuno ne aveva accennato. Le domande sono più delle risposte: cosa ci portiamo dietro? Cosa ne faremo di quello che abbiamo toccato con mano? Faremo vedere le foto, in consiglio comunale ci sarà un po’ di discussione e poi tutto ritornerà come prima? Finalmente in Italia. Leggo giornali vecchi, un po’ di romanzo, del materiale avuto dagli organizzatori. Una frase di una lettera trovata e tradotta: “Ti ho nella mente e nel cuore, luoghi senza frontiere, da molto tempo ormai e per tutto il tempo ancora”. Chissà com’è andata, certamente molte storie sono finite. Si racconta che nelle latrine si socializzasse, unico luogo per parlare, raccontarsi, pensare alle condizioni in cui si viveva, sapere notizie. Stiamo per arrivare, sono a casa, stanco e affamato. Parlo poco del viaggio, non si possono raccontare i pensieri e le considerazioni non ancora elaborate con la mente e con il cuore. Le emozioni sono contrastanti, non trovi le parole perché ti sembrano inadeguate, non descrivono ciò che si è visto e ciò che hanno provocato. “Capire è impossibile ma conoscere è necessario” diceva Primo Levi. E forse il modo giusto per far crescere i giovani è quello di far riflettere gli adulti. Verificare i documenti, leggere le testimonianze, guardare i luoghi con i nostri occhi, conoscere la storia, senza la quale non può esserci memoria. Ma non serve studiare se poi il sapere non ci aiuta a essere migliori e a correggere gli errori e gli orrori. Quanti eccidi ci sono stati negli anni a seguire e ci sono ancora oggi! Lo “stupore per il male altrui” provocato dai campi deve essere continuamente rinnovato e continuare a essere vivo in noi. Perché tutti abbiamo la responsabilità individuale di guardare, di non girare la faccia dall’altra parte. Di non essere indifferenti verso gli invisibili e gli abbandonati, come è successo allora e per questo più di allora.
Bravissimo Michele Mellace ottimo racconto