L’ottimismo cosmico di Gianni Rodari
A quarant’anni dalla morte e cento dalla nascita, il suo nome circola moltissimo come un efficace antidoto alla crisi pandemica. Il segreto è, probabilmente, nelle sue parole chiave – speranza, comunità, infanzia – e nei suoi maestri di pensiero, Leopardi e Gramsci.
Dal primo giorno dell’epidemia, il nome di scrittore che ha circolato di più in rete è stato, senza dubbio, quello di Gianni Rodari: gruppi di lettura ad alta voce, maratone di poesie, favole al telefono, iniziative individuali diffuse sui social. Il suo nome ha risuonato da nord a sud, in lungo e in largo, in tutta la penisola, come quello del Poeta per antonomasia.
Potenza dell’anniversario. Ma non solo. C’è qualcosa di Rodari di cui si avverte il bisogno in questi tempi incerti e opachi: una chiarezza di sguardo e di pensiero, all’insegna dell’ottimismo. Una chiarezza di sguardo e di analisi che vorremmo trovare uguale oggi, declinata intorno a tre parole chiave: speranza, comunità, infanzia. E non prese da sole, una per volta, ma tutte insieme. Perché l’una senza l’altra è muta, non dice niente.
SPERANZA. Gianni Rodari ha amato moltissimo Giacomo Leopardi e Antonio Gramsci. Dai due autori ha imparato a maneggiare concetti quali quello di «ottimismo» e di «pessimismo»: è noto l’invito di Gramsci a leggere il mondo con l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Soprattutto in momenti di crisi. Scrive Gramsci: «D’altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltino a ogni sciocchezza.
Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà». Bene, rilancia Rodari nella Grammatica della fantasia, che cosa ci facciamo con questi sentimenti che fanno a cazzotti? A cosa ci serve il «voler essere» se «l’essere» è ridotto a brandelli? Non è facile ma nei momenti di crisi questa contraddizione ci deve servire per immaginare il futuro. «L’utopia non è meno educativa dello spirito critico. Basta trasferirla dal mondo dell’intelligenza (alla quale Gramsci prescrive giustamente il pessimismo metodico) a quello della volontà (la cui caratteristica principale, secondo lo stesso Gramsci, dev’essere l’ottimismo)».
L’utopia è il regno della speranza che deve sempre guidare le nostre azioni anche nei momenti più bui. «Se io avessi una botteguccia/ fatta di una sola stanza/ vorrei mettermi a vendere/ sai cosa? La speranza». Ma non è pensiero magico. Fantasticheria. L’ottimismo della volontà è l’invito a fare il meglio, anche se la ragione ci spingerebbe a mollare. Una risposta al pessimismo cosmico di Giacomo Leopardi per il quale ogni azione umana è vana perché la felicità è sempre figlia di un dolore, la quiete ci è data soltanto dopo la tempesta. «O natura cortese,/ Son questi i doni tuoi,/(…) Uscir di pena/ È diletto fra noi.». Risponde Rodari: «Non sarebbe più conveniente/ il temporale non farlo per niente?/ Un arcobaleno senza tempesta,/ questa sì che sarebbe una festa».
COMUNITÀ. Rodari sa bene che la tempesta però a volte arriva. E in questo caso bisogna appellarsi allo spirito solidale della comunità. Perché «il problema degli altri è sempre uguale al mio, uscirne da soli è avarizia, uscirne insieme è la politica». Una frase di Lettera a una professoressa che Rodari fa sua.
Ma cosa è una comunità? Un monolite o un luogo di apprendimento continuo? Il 26 marzo 1978 pubblica su Paese sera un articolo che si intitola Aldo Moro e gli altri. Prende spunto da una lettera ricevuta dopo il rapimento dell’onorevole democristiano nella quale dei bambini si domandano se sia ancora possibile chiamare il loro giornalino scolastico «Lieta brigata». La parola brigata, infatti, è sinistramente associata dai bambini a quelle Brigate rosse che hanno rapito Moro. Rodari, con la consueta, radicale, lucidità risponde ai bambini che «brigata» è una parola bellissima, la usavano infatti i partigiani. Non bisogna aver paura del proprio tempo.
«Non bisogna accettare ricatti di nessun genere. Si può stimare, rispettare ed essere solidali con Aldo Moro senza sentirsi per questo moralmente tenuti a stimare e rispettare senza discutere tutti i colleghi di partito di Aldo Moro, tutti i ministri e sottosegretari espressi da quel partito, tutti i funzionari della Repubblica, tutti i giudici di tutti i tribunali, tutti i poliziotti di tutte le Questure e tutto il personale di tutte le scuole, fino all’ultimo bidello». Né vale appellarsi al senso di colpa degli italiani. «Ci sono precise persone che debbono farsi precise autocritiche: per esempio, il ministro, dell’Interno, che si è dimesso. Ma non si chieda al cittadino semplice e che non ha alcun potere di partecipare solo all’autocritica. Egli ha mostrato di considerarsi mobilitato in difesa della Repubblica: si mettano a frutto le sue buone disposizioni, le energie che offre».
Chiedere al cittadino di partecipare solo all’autocritica è uno sport longevo e fecondo che si è spostato dall’era dei quotidiani a quella dei social senza soluzione di continuità. Non così è successo con l’invito a mettere a frutto le buone disposizioni che tutti hanno nel momento in cui, davvero, il senso di comunità si fa più forte. Eppure mai come in questo momento il senso di responsabilità di tutti (adulti e ragazzi) si è mobilitato in modo chiaro: sarebbe il caso dunque di iniziare a ragionare su come ringraziare i più giovani, spesso derisi marginalizzati, accusati di essere irresponsabili balbettanti piccoli zombetti per questo impegno che hanno messo, anche loro, nel prendersi cura di tutti.
INFANZIA. Perché adulti e bambini condividono una porzione di mondo che mai come oggi è allo stesso tempo imposta e negata: si chiudono i giovani in casa insieme ai genitori e si chiede loro di farsi carico delle difficoltà del mondo dei grandi (niente gioco, niente amici, niente di niente). Ma in cambio cosa si dà loro? Dove è la loro voce? Continuare a discutere di loro senza di loro, di come valutarli, per esempio, invece di cercare di capire cosa stanno vivendo è offensivo della loro intelligenza e della nostra.
Scrive Rodari nel 1976 in un articolo contro il voto scolastico: «Non guardiamo indietro: guardiamo al presente, guardiamo avanti. Oggi la scuola vuole essere la scuola di tutti, non di pochi privilegiati. Vuole rispondere a una domanda di democrazia e di giustizia che viene da tutto il Paese. Anche per questo, non vuole più essere la scuola ’che giudica’, ma la scuola ’che aiuta tutti a sviluppare le loro capacità’. Sarà una scuola meno seria? Al contrario, sarà più seria. Vi si lavorerà di meno? Sarebbe un errore: vi si lavorerà di più, ma meglio. Ci sarà meno disciplina? Direi che ci sarà meno bisogno di ricorrere ai mezzi di una disciplina esteriore se sapremo attrezzare la scuola per diventare un centro di attività interessanti, impegnative, creative: se fanno una cosa che li interessa davvero, i ragazzi non hanno bisogno di essere richiamati all’ordine».
Rodari questo non si stanca mai di dirlo, fidandosi, come Leopardi del resto, più della giovinezza che dell’età adulta. Non per sommo pessimismo verso i suoi coetanei ma per il suo «ottimismo cosmico»: del resto è ai bambini che si rivolge quando c’è bisogno di fare le cose difficili come «dare la mano al cieco, cantare per il sordo, liberare gli schiavi ch