La Sinistra. Tra fallimento e ricostruzione
di Stefano Marengo, segretario Pd Bruino
Quindi è tutta colpa di Renzi? Chiariamolo subito: nessun giudizio minimamente equilibrato potrebbe addossare a una sola persona – per quanto importante come il segretario nazionale del PD – la responsabilità per la disfatta elettorale del 4 marzo. Non vi è dubbio che la linea politica renziana si sia definitivamente dimostrata fallimentare, tuttavia Renzi stesso, così come il cosiddetto “renzismo”, non sono che la punta di iceberg di una crisi ben più profonda che riguarda strutture, concetti, prassi e visione del mondo della sinistra non solo italiana.
Basta dare uno sguardo all’estero per rendersene conto. In Francia, dopo cinque anni di disastri a firma Hollande, il PS è praticamente scomparso alle elezioni presidenziali del 2017. In Germania, reduce da una distruttiva esperienza di Grosse Koalition, l’SPD si ritrova a fare i conti con il consenso più basso della sua storia ultrasecolare. In Spagna, dove il sistema politico è diventato il paradigma della precarietà, il PSOE non si scosta da anni dalla soglia del 20% (o poco più), sistematicamente superato a sinistra da Podemos.
Certo, si obietterà, ci sono anche i casi di Portogallo e Regno Unito, dove socialisti e laburisti sono in perfetta salute. Ma al netto di queste notevoli eccezioni (su cui tornerò), mi pare evidente che oggi ci troviamo di fronte ad una crisi profonda dell’area socialdemocratica europea. Una crisi che si concretizza come definitivo naufragio di quella “terza via” a cui, con alterne fortune, si sono affidati pressoché tutti i partiti progressisti occidentali negli ultimi vent’anni.
Ma cosa si deve intendere per “terza via” e che cosa, di quella proposta politica, va oggi archiviato? Facendo riferimento ad uno slogan ben noto negli anni Novanta, possiamo dire in generale che la “terza via” si caratterista per il perseguimento di “politiche economiche di destra e politiche sociali di sinistra”. In ultima analisi questo significa che, alla svolta del secolo, la sinistra occidentale (a partire dai laburisti britannici e da democratici statunitensi) aveva finito con l’accettare larga parte della piattaforma programmatica della “rivoluzione” conservatrice neoliberista operata da Reagan e Thatcher un decennio prima.
Tale piattaforma può essere meglio definita attraverso una celebre dichiarazione della Lady di Ferro: “There is no alternative” – non c’è alternativa a un modello di sviluppo fatto di finanziarizzazione massiccia dell’economia, deregolamentazione dei mercati e precarizzazione del lavoro (in breve, la globalizzazione come oggi la conosciamo). Sostanzialmente è proprio questa la visione (le politiche economiche di destra) che la “terza via” scelse di far propria, riservandosi soltanto la facoltà di intervenire (con politiche sociali di sinistra) per arginare gli effetti socialmente più iniqui che il capitalismo finanziario globalizzato e senza regole avrebbe inevitabilmente prodotto. Ma agire sugli effetti (sociali) senza affrontarne le cause (economiche) equivale a curare i sintomi di una malattia senza eliminare la malattia stessa…
Le contraddizioni di questa impostazione sono evidenti. Esse, tuttavia, non emersero subito: quando la “terza via” fu proposta, negli anni Novanta, l’economia era generalmente in crescita, ciò che poteva indurre l’idea (l’illusione) che il modello di sviluppo adottato potesse essere vantaggioso per tutti. Con l’inizio del nuovo secolo, tuttavia, le cose cambiarono, dapprima in modo quasi impercettibile con alcuni rallentamenti della crescita, poi in modo sempre più evidente con il manifestarsi di fenomeni recessivi. Il crollo divenne infine inevitabile con lo scoppio della bolla finanziaria del 2008 e la conseguente crisi da cui, di fatto, non siamo ancora usciti e che ha prodotto in tutto l’Occidente aumento delle povertà, scomparsa del ceto medio, impennata dei tassi di disoccupazione, incremento delle disuguaglianze…
In quel momento fu evidente – o, meglio, avrebbe dovuto esserlo – che il perseguimento di politiche economiche di destra non solo non impediva, ma era all’origine di una devastazione sociale senza precedenti dal secondo dopoguerra.
L’aspetto tragico dell’intera vicenda è che la “terza via” si è rivelata un’ideologia dura a morire. La responsabilità storica della sinistra è stata infatti quella di non aver saputo leggere gli eventi e, di conseguenza, aver riproposto come soluzione della crisi le medesime politiche che l’avevano generata. Ecco perché in questi dieci anni, anche quando è stata al governo, la sinistra non ha promosso alcuna regolamentazione sostanziale della finanza e ha proseguito sulla strada della precarizzazione del lavoro e della riduzione della spesa per servizi e investimenti pubblici (dando così il suo contributo al permanere di quell’austerità a cui, in definitiva, è stata contraria per lo più solo a parole).
Naturalmente una generalizzazione di questo tipo si espone a molteplici critiche. Tuttavia, benché il quadro di “lunga durata” appena tracciato vada precisato nei dettagli (alcuni dei quali tutt’altro che trascurabili), la tendenza di fondo appare nitida: non volendo rinunciare (per inerzia o per convinzione) all’ideologia “terzista”, il campo progressista europeo non è stato in grado di dotarsi di un programma politico e culturale che avesse concretamente al centro un massiccio intervento pubblico nell’economia, la difesa davvero efficace delle fasce deboli, la riduzione delle disuguaglianze e la promozione della giustizia sociale.
È questa, in definitiva, la circostanza che, in anni recenti, ha indotto buona parte del “popolo della sinistra” a non rinnovare il proprio consenso nei confronti dei partiti a cui faceva tradizionalmente riferimento. Detto in breve, la crisi ormai sistemica del progressismo europeo deriva dall’aver adottato, in ossequio al “there is no alternative” thatcheriano, politiche moderate e prive di coraggio laddove le esigenze e i bisogni dei ceti popolari e del ceto medio avrebbero richiesto un’inversione di rotta radicale rispetto al trend di questi decenni.
Il Partito Democratico, in questo contesto, non ha fatto eccezione. Anzi, nel 2011, l’approvazione della cosiddetta “riforma Fornero” con i voti democratici rese il PD protagonista di primo piano della declino della socialdemocrazia europea. È vero che quello fu un provvedimento di emergenza e che, in quella fase specifica, era difficile immaginare altre vie d’uscita. Ciò tuttavia non toglie che il Partito Democratico compì, come si dice con parole abusate, un “atto di responsabilità nei confronti del paese” al prezzo del tradimento dei suoi ideali dichiarati. (Occorrerebbe poi chiedersi quale responsabilità possa mai reggersi su simili premesse, ma questo ci porterebbe troppo lontano…)
Per venire all’oggi, se non ci si limita ad un’analisi superficiale, è quindi evidente come i problemi del PD siano ben più antichi del sorgere dell’astro renziano. Ma questo riconoscimento non deve essere considerato assolutorio nei confronti della Segreteria e del Governo Renzi, la cui linea politica è stata anzi pienamente organica alla dottrina “terzista”.
Naturalmente non è questo il luogo per svolgere una disamina di dettaglio di quasi quattro anni di vita politica del PD. Si possono però indicare, a titolo esemplificativo, due snodi critici. Il primo è stato l’approvazione del Jobs Act, una misura che ha inferto un secondo colpo mortale all’Art.18 dello Statuto dei lavoratori (il primo era stato a suo tempo vibrato dalla già menzionata riforma Fornero) e ha creato nuova precarietà. Il secondo riguarda le ricadute della timida crescita economica che l’Italia conosce da qualche mese: per comune ammissione, finora solo la ristrettissima minoranza più abbiente della popolazione ne ha tratto beneficio, mentre la stragrande maggioranza degli italiani risente ancora dell’impoverimento indotto dalla crisi. Questo significa, molto semplicemente, che non solo in questi anni di governo non si è operato per un’effettiva ridistribuzione della ricchezza, ma non si sono neanche create le condizioni affinché tutti i cittadini potessero affacciarsi con pari opportunità alla ripresa economica. In altri termini, le disuguaglianze, già insostenibili in precedenza, sono ulteriormente aumentate, e con esse sono cresciuti rabbia e conflitto sociale, facili prede, se non governati con politiche progressiste, delle sirene populiste e demagogiche.
Già questi elementi “strutturali” della linea politica renziana sarebbero sufficienti per spiegare la disfatta del 4 marzo. A peggiorare la situazione ha poi innegabilmente concorso uno stile di gestione del partito fatto di personalizzazione estrema, di accentramento del potere, di normalizzazione della dialettica interna, di decisionismo senza concertazione con le realtà sociali, di riformismo dall’alto – uno stile, in breve, che si è dimostrato repulsivo per larga parte dell’elettorato di sinistra.
In questo quadro, la sconfitta elettorale deve essere un reale punto di svolta per i democratici. Una svolta che, tuttavia, non può tradursi in un mero cambio di leadership: non è infatti semplicemente archiviando l’esperienza renziana che il partito potrà risollevarsi. Ciò che serve è una rifondazione complessiva della soggettività politica del PD, un ripensamento profondo della sua base ideale e programmatica così come delle sue strutture organizzative e del suo modo di stare dentro la società italiana.
Sarà indubbiamente un percorso lungo e tortuoso e nessuno può sapere in questo momento che cosa troveremo al termine della traversata. È quindi piuttosto difficile – se non un’esercitazione puramente accademica – individuarne gli snodi fondamentali. Per questa ragione, mi limiterò ad indicare soltanto due macro obiettivi che il PD deve porsi con una certa urgenza.
Il primo è la “riappropriazione creativa” di temi che, in questi anni, sono stati ampiamente trascurati dal campo progressista, come ad esempio la questione delle prospettive future di lavoro e welfare. A questo proposito vale la pena sottolineare come l’argomento del reddito di cittadinanza, brandito elettoralmente con successo dal Movimento 5 stelle, non è affatto, nella sua prima origine, una proposta populista, ma nasce in ambienti di sinistra come programma per arginare le pesanti ricadute sui lavoratori, da una parte, del venir meno di posti di lavoro a seguito della massiccia informatizzazione/robotizzazione di pressoché tutti i settori economici, e dall’altra del potere ricattatorio che il capitale finanziario globalizzato può esercitare sui livelli salariali. Beninteso: così come proposto dai pentastellati, il reddito di cittadinanza è mero assistenzialismo, di per sé irrealizzabile se non al prezzo di tagli consistenti dei servizi pubblici di base. Ciò non toglie, tuttavia, che i problemi sociali (locali e globali) a cui esso intende rispondere siano ben reali ed è quindi necessario che la sinistra torni ad occuparsene con estrema cura. Perché, ad esempio, non elaborare una proposta per una riduzione consistente, a parità di salario, degli orari di lavoro? Se ben organizzata e attuata, una misura simile potrebbe garantire maggiore occupazione e limitare gli effetti negativi proprio dell’informatizzazione/robotizzazione.
Il secondo obiettivo è quello di individuare un modello organizzativo che integri la tradizionale e, fino a un certo punto, necessaria struttura piramidale del PD con un’articolazione a rete che consenta di raggiungere ambiti sociali più o meno strutturati ma comunque irriducibili alla forma e alle esigenze del partito. La società con cui dobbiamo misurarci vede infatti un fiorire di esperienze (pubbliche e private, economiche e sociali ecc.) plurali e autonome, e questa complessità può essere affrontata solo attraverso un dialogo e un confronto ancora più approfonditi che in passato.
In quest’ottica può essere estremamente utile studiare le vicende, prima menzionate, dei socialisti portoghesi e dei laburisti britannici, che hanno avuto la forza di lasciarsi alle spalle le suggestioni ideologiche della “terza via” e hanno iniziato a tracciare, pur tra dubbi e difficoltà, i contorni di una socialdemocrazia aggiornata al XXI secolo. È un compito a cui anche i democratici italiani, nella loro specificità, devono poter contribuire. Ma il primo passo da compiere è riconoscere che, contrariamente alla vulgata degli ultimi decenni, devono esserci e, in definitiva, ci sono alternative al modello di sviluppo attuale, alle disuguaglianze, all’impoverimento, alla distruzione del welfare. D’altra parte, se davvero pensassimo che “there is no alternative”, la sinistra sarebbe, in ultima analisi, perfettamente inutile.